27. febbraio 2012 15:23
by Alessandro Nasini
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Leggo e sento da alcuni giorni a questa parte un sacco di appelli accorati a favore dei lavoratori della Foxconn, l'azienda cinese che produce molti dei prodotti di giganti della ICT come Apple, HP ed altri.
Appelli accorati a favore di operai e tecnici che (almeno a quanto trapela) lavorerebbero con turni massacranti e stipendi assai miseri, in una condizione di quasi schiavitù. Non ho sentito però fare la seguente affermazione: "dobbiamo accettare il prezzo della tecnologia e smettere di credere che sia possibile avere bassi prezzi senza un prezzo sociale".
Ho preso la tecnologia come spunto, perché mi sono fatto due conti al volo: per dare all'operaio che assembla un iPad uno stipendio mensile più decente (e magari consentirgli di lavorare un numero di ore sostenibile), basterebbe probabilmente pagare un iPad 20 dollari in più.
Sostituite ora "iPad" con un qualsiasi altro oggetto hi-tech e fate le debite proporzioni. Ma se volete semplificare, fate lo stesso conto con la camicia che indossate, con la vostra bici, il frullatore o qualsiasi altro prodotto di quelli che un tempo costavano un certo prezzo, ed ora costano la metà. Io credo sia necessario tornare a dare al lavoro di ognuno, specializzato o meno, italiano o cinese, il giusto valore ed accettare di pagarne il prezzo.
Voler pagare tutto poco o pochissimo e poi fare i moralisti della domenica mi pare assai poco onesto.
Forse avrete letto l'intervista a Repubblica di Giuseppe De Rita, fondatore e presidente del CENSIS. Io l'ho fatto e devo confessare che ho trattenuto a stento una certa euforia. Cosa ha detto - molto in sintesi - De Rita? Che in Italia si studia troppo (o meglio, troppo a lungo) e troppe cose inutili per il lavoro che si fa o che si vorrebbe fare. L'intervista evidenzia soprattutto un problema relativamente alle professioni manuali (molte delle quali ormai "riservate" a lavoratori immigrati perché snobbate e abbandonate dagli italiani) ma non solo. Per ragioni ideologiche - sostiene De Rita - abbiamo di fatto rifiutato l'idea di una "formazione per il lavoro" cancellando o quasi gli Istituti Tecnici e privilegiando invece diplomi generici, lauree brevi e tutta una serie di percorsi formativi "lunghi" che hanno creato attese ed aspirazioni che il mercato del lavoro non è poi in grado di soddisfare.
De Rita prosegue con riferimenti alla proposta del Ministro Tremonti di "tornare al lavoro manuale", imparando (sembra paradossale) proprio dal percorso che stanno facendo un numero significativo di immigrati, ovvero dal lavoro manuale all'avviamento di piccole imprese. Non vuoi accettare il lavoro manuale? L'unica via è "la formazione in azienda, promossa e finanziata con un piano pubblico grazie al quale soprattutto i piccoli imprenditori siano incentivati a prendere in azienda i precari e formarli".
Secondo De Rita, proprio questo meccanismo (chiamarlo praticantato non è una bestemmia n.d.r.) è di fatto stato alla base della crescita economica italiana dal dopoguerra alla fine degli anni '80.
Personalmente condivido molto di quanto ha detto De Rita, con la precisazione magari che il diritto a studiare "materie inutili" è e rimane sacrosanto, ma che questo diritto non può poi trasformarsi ad un diritto automatico al lavoro, come invece mi pare avvenga ormai da qualche tempo.
Una sintesi dell'articolo pubblicato su Repubblica lo trovate qui:
http://rassegnastampa.mef.gov.it/mefnazionale/View.aspx?ID=2011041818445191-1