La politica e le istituzioni iniziano ad interessarsi di startup. Lo fanno ancora timidamente, con molte incertezze e talvolta facendo sorgere il dubbio di cavalcare la novità senza particolare competenza. A giudicare da premi, concorsi, barcamp, workshop, blog, portali e portalini l'Italia è tutta un fiorire di iniziative di giovani startupper, con numeri vicini alle migliaia di nuove proto-aziende.
Ovviamente è il web il terreno più fertile, spinto dalla speranza di creare la nuova Google, la Facebook di domani o - per rimanere sul corto raggioo - la Groupon del mese prossimo, armati solo di un notebook e di buona volontà. Tra speranza e miraggio però è un attimo.
Seguo il mondo delle startup da qualche anno - no, tranquilli, non sono un "esperto di startup" come altri si qualificano - ma almeno tra le italiane la percentuale di successo mi pare ancora pericolosamente bassa, se non ai limite dei decimali. Ogni volta che ho modo di incontrare giovani startupper (ma anche meno giovani, che vuol dire quarantenni e cinquantenni) sento più o meno le stesse richieste, frutto dei medesimi bisogni, molte delle quali inevitabile conseguenza del nanismo del gruppo di lavoro e della carenza di mezzi.
Inizio a domandarmi se non ci sia un errore di fondo, di previsione e di misura: abbiamo davvero bisogno di migliaia di micro-startup? O non sarebbe meglio puntare a far nascere aziende già più grandine dall'inizio, più strutturate? Meglio migliaia di cantine o qualche centinaio di uffici decenti?
Ora è ufficiale, l'Italia sta rapidamente diventando un paese di vecchi. Di giovani non ce ne sono più abbastanza. Non siamo soli in Europa - la Germania è messa male quanto noi - ma la cosa consola molto poco.
Ce lo dice in questi giorni il CENSIS con numeri tanto secchi da far rabbrividire: in dieci anni (dal 2000 ad oggi) il numero di giovani tra i 15 ed i 34 anni si è ridotto di 2 milioni. E menomale che nei numeri consideriamo giovani anche gli ultra-trentenni, perché altrimenti ci sarebbe da passare dai brividi al panico.
L'altra pessima notizia - non bastasse la prima - è che quei pochi giovani che abbiamo non saranno probabilmente in condizione di garantirsi un futuro (altro che garantirlo a noi cinquantenni o più) perchè studiano poco, studiano male (si laureano raramente e nemeno bene) ed hanno aspirazioni quasi nulle. Un numero impressionante di giovani si limita a vegetare in una sorta di limbo fatto di non-studio e non-lavoro; il lavoro, addirittura, hanno persino smesso di cercarlo o non hanno mai nemmeno cominciato.
La ricetta per produrre più giovani non sembra l'abbia ancora trovata nessuno: qualcuno propone semplicemente di importarli da dove ce ne sono in abbondanza, pochi mi pare abbiano idea di come fare a produrne in Italia, magari mettendo i trentenni italiani, i pochissimi che abbiamo, in condizione di pensare seriamente a metter su famiglia e prole.
Io dico la mia: mettiamo una tassa sui vecchi, una tassa di scopo, per aiutare i giovani. Io non ho ancora cinquant'anni, ma per dare il buon esempio un tassa così la pagherei volentieri e con convinzione. Anche se il mio dovere di produttore di giovani l'ho già fatto, due volte.
In Italia si racconta che all'estero siamo visti ancora oggi come "pizza e mandolino". La realtà dei numeri racconta tutta un'altra storia, fatta di eccellenze in un gran numero di settori produttivi. Anche moda, design e cibo, ma non solo, tutt'altro.
Per la mia esperienza, dopo vent'anni di rapporti di lavoro con gli USA, questa percezione dell'Italia è vera solo per una parte degli americani, nemmeno la maggior parte. Per quella parte di americani che in realtà non sa bene dove sia l'Italia, ma che a onor del vero ha un'idea altrettanto vaga della Francia o della Spagna.
Ad ogni modo, soprattutto in questo momento delicato per l'economia, ogni occasione deve essere buona per raccontare al mondo (americani certamente, ma il discorso vale pari-pari per cinesi, indiani, etc.) la vera Italia che produce, quella delle imprese innovative e dei prodotti d'avanguardia.
E siccome abbiamo una rete di "avamposti" ben strutturata, fatta di ambasciate, consolati, uffici dell'ICE e di chissà quante altre emanazioni di enti pubblici e privati, questa rete andrebbe coordinata e sfruttata per migliorare la nostra reputazione all'estero, come paese e come paese d'impresa. E' cosa impossibile?
Alcuni giorni fa, durante una prima riunione di progetto, abbiamo cominciato "casualmente" a parlare di qualità. La scintilla è stata una mia domanda diretta al cliente: "Come sono i vostri prodotti?".
So bene che qualcuno penserà che certe domande non si fanno, non sta bene, perché il cliente potrebbe risentirsi. La risposta è stata invece molto chiara e diretta "Facciamo prodotti abbastanza buoni, certamente sopra la media, ma c'è anche di meglio".
Può sembrare banale, ma se ognuno di noi dovesse rispondere alla stessa domanda, ovviamente estendendo a prodotti o servizi, cosa risponderebbe?
Forse avrete letto l'intervista a Repubblica di Giuseppe De Rita, fondatore e presidente del CENSIS. Io l'ho fatto e devo confessare che ho trattenuto a stento una certa euforia. Cosa ha detto - molto in sintesi - De Rita? Che in Italia si studia troppo (o meglio, troppo a lungo) e troppe cose inutili per il lavoro che si fa o che si vorrebbe fare. L'intervista evidenzia soprattutto un problema relativamente alle professioni manuali (molte delle quali ormai "riservate" a lavoratori immigrati perché snobbate e abbandonate dagli italiani) ma non solo. Per ragioni ideologiche - sostiene De Rita - abbiamo di fatto rifiutato l'idea di una "formazione per il lavoro" cancellando o quasi gli Istituti Tecnici e privilegiando invece diplomi generici, lauree brevi e tutta una serie di percorsi formativi "lunghi" che hanno creato attese ed aspirazioni che il mercato del lavoro non è poi in grado di soddisfare.
De Rita prosegue con riferimenti alla proposta del Ministro Tremonti di "tornare al lavoro manuale", imparando (sembra paradossale) proprio dal percorso che stanno facendo un numero significativo di immigrati, ovvero dal lavoro manuale all'avviamento di piccole imprese. Non vuoi accettare il lavoro manuale? L'unica via è "la formazione in azienda, promossa e finanziata con un piano pubblico grazie al quale soprattutto i piccoli imprenditori siano incentivati a prendere in azienda i precari e formarli".
Secondo De Rita, proprio questo meccanismo (chiamarlo praticantato non è una bestemmia n.d.r.) è di fatto stato alla base della crescita economica italiana dal dopoguerra alla fine degli anni '80.
Personalmente condivido molto di quanto ha detto De Rita, con la precisazione magari che il diritto a studiare "materie inutili" è e rimane sacrosanto, ma che questo diritto non può poi trasformarsi ad un diritto automatico al lavoro, come invece mi pare avvenga ormai da qualche tempo.
Una sintesi dell'articolo pubblicato su Repubblica lo trovate qui:
http://rassegnastampa.mef.gov.it/mefnazionale/View.aspx?ID=2011041818445191-1
Tra ieri pomeriggio e le 11:00 di oggi sono arrivare a studio quattro telefonate pressochè identiche:
- C'è il titolare?
- Chi lo desidera?
- Chiamo da (...)
Sostituite i puntini con TIM, TELECOM, Tre, Fastweb, Vodafone, Wind. La cosa si ripete con la stessa media praticamente tutti i giorni della settimana da mesi, con un particolare intensificazione da un paio di settimane a questa parte, con più chiamate per lo stesso operatore fatte da diverse agenzie.
Mi sono sempre domandato chi mai scriva gli script delle telefonate e perché il tono, il garbo e la sostanza debbano essere tanto lontani non dal "Manuale del perfetto venditore" ma dalle più basilari norme di galateo telefonico. Ci fosse una volta che la telefonata inizi con un "Buongiorno..."
Leggo su Panorama Economy del 30 marzo una interessante intervista a Franz Jung, da pochi mesi presidente di BMW Italia. Il titolo dell'articolo è "Si può dare di più".
Confesso che sono da sempre un appassionato di auto, ne ho guidate di ogni tipo e categoria e da 10 anni mi sono appassionato (da buon padre di famiglia, addio velocità) al fuoristrada. La cosa che però ha suscitato il mio interesse non è l'annuncio di un nuovo modello ma il "focus" dell'intervista sulla volontà di BMW di diventare il Numero Uno dell'assistenza ai clienti.
E' in effetti l'aspetto che mi ha sempre lasciato molto perpresso nella "catena del valore" del settore auto e moto: una volta che hai acquistato il mezzo (esperienza sulla quale magari tornerò in altra occasione) il cliente diventa sostanzialmente un "signor nessuno". Non importa quanto hai speso per la tua nuova auto, se 8.000 euro di una utilitaria o 50.000 euro di un alto di gamma, una volta consegnate le chiavi sei abbandonato a te stesso. Con pochissime eccezioni (nella mia esperienza trentennale abbastanza casuali) l'assistenza al cliente è una sorta di nightmare, di buco nero.
"Eh, ma il settore è in crisi, devono contenere i costi", potrebbe obbiettare qualcuno. E invece, analizzando la cosa in un'ottica di service design (che è poi il mio campo), i costi non c'entrano per nulla, al limite molto marginalmente. L'industria dell'auto, il fatto che persino BMW che un marchio così prestigioso lo dichiari come un obbiettivo da realizzare, sembra aver quasi completamente ignorato che la qualità del servizio (quello che un tempo si definiva pre-vendita e post-vendita) non è un fatto di packaging o di comunicazione, bensì una componente essenziale del "prodotto" stesso.
Uscendo dalle situazioni specifiche del settore auto (come detto, ci tornerò) mi domando se e quante aziende si pongano questi problemi con un approccio corretto, rendendosi conto che ormai il "cliente" sceglie in modo sempre più consapevole ed attento al "valore totale" di ciò che compra.
Qualche giorno fa è stato pubblicato il rapporto "Fattore Internet - Come Internet sta trasformando l'economia italiana". Lo studio, commissionato da Google e realizzato da The Boston Consulting Group, evidenza novità molto interessanti e, abbastanza inaspettatamente almeno per me, dati quantitativi e qualitativi inattesi.
Già il dato relativo al contributo percentuale al PIL del "settore internet" per il 2010 è piuttosto alto, il 2,0% (più alto di settori che godono di ben maggiori attenzioni), ma se la tendenza verrà confermata possiamo attenderci per il 2015 un ben più corposo 3,3-4,3%.
Ancor più del dato complessivo, già positivo, il rapporto evidenzia che una volta tanto ad investire e raccogliere sono proprio le piccole imprese, specialmente quelle che sul web hanno una presenza attiva, ovvero non limitata alla sola presenza con un sito web vetrina, ma che invece utilizzano il web per promuoversi (anche all'estero) e tessere rapporti con clienti e fornitori.
Il rapporto è disponibile integralmente a quesyo indirizzo:
http://www.fattoreinternet.it/pdf/Fattore%20internet-2011.pdf
Per una ragione puramente di calendario (in questi giorni sono stati pubblicati da Regione Lazio e Comune di Roma rispettivamente il Bando delle Idee ed il Bando CAE) ho avuto la tentazione di scrivere qualcosa su questo tipo di opportunità. Ho fatto fatica a resistere, in un momento come l'attuale, nel quale ogni fonte di approvvigionamento finanziario a basso costo (o magari a costo nullo) rappresenta una potenziale boccata di ossigeno.
Sono riuscito a resiste alla tentazione solo ripetendomi a mo' di mantra che "è sbagliato partire dai soldi disponibili, bisogna partire dall'idea".
Il che mi porta a domandarmi se e quando sarà (mai) possibile incrinare il perfido meccanismo che porta aziende piccole e meno piccole ad adattarsi ed adattare capacità e progetti alla disponibilità di fondi. Fondi spesso allocati su bandi scritti in ritardo rispetto a qualsiasi evoluzione del mercato.
Il blog è online. Ora si balla.